ALMANACCO DEL GIORNO DOPO: ALCUNE NOTE SUL MOVIMENTO CONTRO LA “RIFORMA” GELMINI

Dopo
i mesi di mobilitazione appena trascorsi, ci sembra importante – se
non necessario – socializzare qualche riflessione e cercare di
proporre un bilancio complessivo sul movimento che alla fine dello
scorso anno ha visto scendere in piazza decine di migliaia di persone
per protestare contro l’ennesima “riforma” dell’istruzione e
della ricerca. Un bilancio in effetti ancora aperto, che muove “solo”
dalla nostra piccola esperienza di dottorandi, assegnisti, docenti a
contratto e ricercatori precari che hanno messo su, nel cuore della
contestazione, una Rete che coinvolge diversi soggetti provenienti
dalle università napoletane.

Iniziamo
con una riflessione di ordine davvero generale. Se si vuole
restituire il senso di questa mobilitazione, il primo dato da tenere
in conto è l’impressionante numero di persone che hanno
partecipato alle proteste. Un numero che vedeva al suo interno
tantissimi studenti medi e universitari, ma anche insegnanti di
scuole elementari, docenti di istituti superiori, dottorandi,
personale tecnico-amministrativo, tutte le figure del precariato
universitario… Un numero davvero significativo e certamente
inaspettato, a dimostrazione di come – nonostante il bombardamento
mediatico e la propaganda di regime – non si possa cancellare tanto
facilmente il dissenso e nascondere le contraddizioni materiali. Un
numero fatto di volti, di gesti concreti – che non c’è bisogno
di esaltare perché parla da sé, lasciandoci ben sperare
anche per l’immediato futuro.

 

Questo
dato eccezionale è quindi il punto da cui partire, anche per
un’analisi che voglia essere (auto)critica. Infatti il numero, prima
cresciuto esponenzialmente, poi rapidissimamente dissolto, è
anche indice di alcuni tratti qualitativi, ed assume dunque un valore
diverso – purtroppo non solo positivo e incoraggiante – in una
considerazione più complessiva, ovvero largamente politica.

Noi
la crisi l’abbiamo già pagata… e con largo anticipo! La
lettura della riforma universitaria da parte del movimento
studentesco

Una
caratteristica, forse la caratteristica, che ha
contraddistinto questa mobilitazione rispetto alle precedenti, è
la fondamentale mancanza di politicizzazione delle rivendicazioni che
provenivano dal movimento. Questo dato innegabile, su cui tantissimi
soggetti – loro sì, del tutto “politici” – hanno
speculato, si è articolato su più livelli. Lo studente
che non si definiva “né rosso né nero”, quello che
non sapeva cosa fosse l’antifascismo, il dottorando che ragionava
seguendo gli orientamenti della sua “scuola” piuttosto che un suo
pensiero o una sua affinità, lo specializzando della SISS che
si sentiva “opposto” a quello del ciclo superiore o inferiore,
con cui si guardava bene dall’entrare in relazione (visto che abolire
i pacchetti governativi avrebbe voluto dire abolire anche quei miseri
commi che lo “aiutavano”): questi sono tutti esempi concreti e
ricorrenti dell’incapacità di inquadrare la propria posizione,
i propri nemici ed i propri alleati.

Tale
difetto nel riconoscere i compagni di lotta, la mancanza più
assoluta nello sviluppare la propria autonomia rispetto al quadro
preesistente, è immediatamente visibile nel modo in cui gli
studenti hanno cercato una relazione con i loro rappresentanti
istituzionali, docenti in primis. Si pensi alla continua
richiesta, da parte degli studenti, di un autorevole benestare, di
una partecipazione, di un coinvolgimento (spinto sino alla volontà
di “eterodirezione”), dei professori nella protesta: essa è
proprio il frutto più maturo di quei processi integranti e
disciplinanti messi in atto con il “3+2”. Lo studente è
infatti portato a guardare molto più facilmente e con molto
più favore alla relazione verticale con il professore con il
quale (stante l’obbligatorietà della frequenza) deve passare
molte ore e che (stante la cogenza dei percorsi curriculari) decide
del corso di studio, piuttosto che alla relazione orizzontale con gli
altri studenti, con i quali, pur appartenendo a un diverso corso di
laurea o ad un’altra università, condivide gli stessi
problemi.

Se
a questo si aggiunge il generale recupero, in chiave di controllo,
dell’autorità nelle relazioni sociali, si vede bene come
chiedere l’appoggio del docente sia giocare al ribasso rispetto alla
propria forza e capacità di analisi e mobilitazione, e
rispetto ai propri obbiettivi. Inoltre ci si impedisce di riconoscere
che a) i docenti non si sono mobilitati in maniera vigorosa, proprio
perché non erano direttamente toccati dal pacchetto di misure;
b) che questi stessi docenti sono stati coloro che negli anni passati
hanno supinamente accettato – se non accolto favorevolmente – proprio
le riforme che hanno smantellato università e ricerca; c) che
essi costituiscono un gruppo di potere, trasversalmente e ampiamente
rappresentato in Parlamento, e inserito in tutti i luoghi
istituzionali e di creazione del consenso. La classe docente, nel suo
complesso, è stata complice delle riforme che hanno introdotto
autonomia, precariato, relazioni fra Università e imprese, e
perpetrato fino al ridicolo meccanismi baronali e cooptativi: in
questa mobilitazione gli si è data la possibilità di
rimanere in una comoda ambiguità, se non proprio di rifarsi
una “verginità” con proclami a poco prezzo.

Il
corpo docente, oltre a non prendere nessuna posizione forte e a non
partecipare effettivamente alle manifestazioni e alle occupazioni
(eppure in altre situazioni, ad esempio in Francia, una maggiore
politicizzazione conduce a scelte più radicali, come la
mancata consegna delle camicie d’esame, o l’invalidamento di atti
amministrativi), ha potuto indirizzare la lotta degli studenti verso
una riduzione “qualitativa” dello scontro e delle rivendicazioni,
riducendo il problema a una semplice questione di “tagli” decisi
da un governo che aveva l’obiettivo di fare cassa dequalificando
l’istruzione. Come se l’università costruita dai vari
Zecchino e Berlinguer non sia stata in linea con le manovre europee
del Processo di Bologna, che mirano a costruire un’Università
europea di massa, ma dequalificata, erogatrice di lavoratori a basso
costo, ed un’università di élite aggressiva,
indottrinata e competitiva nel risiko dell’imperialismo
mondiale in cui l’UE è impegnata.

Un’altra
conseguenza della lettura della “riforma” Gelmini come un
provvedimento isolato, di ordine perlopiù economico – ovvero
attinente solo all’entità dei tagli, che dovrebbero essere
ritirati perché l’Università e la Cultura sono un “bene
comune” – è quella di non portare l’analisi più in
fondo. Non è stata infatti adeguatamente compresa e condivisa
la banale verità che i professori, i “precari”, e
soprattutto gli studenti, non sono colpiti allo stesso modo.

L’università
non è un luogo dove le differenze sociali si amalgamano e si
annullano, al contrario: l’università riproduce – e in alcuni
casi acuisce – le distinzioni di ceto e di classe, anzi punta a
costituirsi – e questo da sempre – come ulteriore elemento di
distinzione di classe, non vedere questo nesso vuol dire considerare
l’università come un luogo “neutrale”, immune dalle
divisioni che la società costruisce e ci presenta
quotidianamente. È allora stato possibile, questa volta più
delle altre, considerare l’università come uno spazio franco e
avulso senza vedere le differenze in seno allo stesso soggetto
studentesco e senza rendersi conto e battere sul fatto che i tagli e
le riforme delle università colpiscono prevalentemente i
soggetti più deboli, proprio quelli che anche al di fuori sono
sempre più esposti ai continui e violenti attacchi
continuamente diretti contro i proletari.

La
protesta contro i tagli all’università non si è
sufficientemente connessa – a nostro modo di vedere – con il
cosiddetto “mondo circostante”, vale a dire, non si è
compreso il profondo legame che questi provvedimenti hanno con il più
complessivo processo di destrutturazione dei diritti sociali
complessivi. L’unico – e superficiale – riferimento che non avesse
una immediata attinenza con il mondo universitario è stato
quello della crisi economica. “Noi la crisi non la paghiamo” era
lo slogan che a gran voce si alzava in ogni manifestazione
dell’ultimo autunno. Riferimento, però, sterile e confuso. Non
solo, infatti, poche o nulle sono state le riflessioni approfondite
sulla natura e le conseguenze di questa crisi economica, ma questo
tipo di legame non ha fatto altro che nascondere la reale portata del
processo di fronte al quale ci troviamo. Anche questa volta, si è
taciuto sul quadro generale e complessivo in cui questi tagli si sono
inseriti: i “tagli” all’istruzione non sono semplicemente dovuti
a una mancanza di liquidità da parte di uno Stato, ma sono
parte del progetto di adeguazione alle direttive europee, che in
Italia – come negli altri paesi europei – è iniziato con
l’applicazione della riforma del 3+2. Le conseguenze di questo
processo sono state disastrose: la reintroduzione dell’obbligo di
frequenza, per esempio, e la scansione molto più serrata dei
tempi, portano gli studenti a percepirsi come sempre più
frammentati e appartenenti a un corso di laurea o a una classe
scolastica, piuttosto che a un soggetto sociale complesso e
stratificato secondo le divisioni di classe. Allora, piuttosto che
rispondere a una esigenza di risparmio, i tagli, che progressivamente
vengono promossi e effettuati da anni dai governi che si sono
alternati, si inseriscono pienamente in questo processo europeo di
riforma dell’istruzione.

Così
si sono visti spesso i singoli corsi di laurea prendere parte alle
mobilitazioni come atomi frammentati che portavano avanti
rivendicazioni diverse e isolate, con il risultato di indebolire
profondamente il livello di scontro e la possibilità di
incidere, a vantaggio di una prospettiva pompieristica che mirava a
mantenere un mero piano concertativo per chiedere semplicemente meno
tagli, oppure una più uniforme distribuzione tra le cosiddette
università “virtuose” o “non virtuose”.

Le
forme di lotta: uno specchio del movimento

Se
si presta attenzione alle forme di lotta che maggiormente hanno
caratterizzato questa mobilitazione, si avrà una cartina
tornasole di quanto il movimento sia stato poco capace di esprimere
posizioni politiche forti e durevoli. Una delle forme di protesta più
praticate è stata quella delle lezioni in piazza: ennesima
dimostrazione di come ci si sia affidati all’autorità dei
professori, a scapito di pratiche orizzontali ed autorganizzate.

Il
messaggio che, più o meno consapevolmente, si è fatto
emergere da forme di lotta come queste sembra essere quello di una
implicita difesa della sana università del passato, per
cui la didattica, con i suoi contenuti e metodi, non solo non va
contestata, ma addirittura nemmeno interrotta. Con i tagli, si
diceva, sarà impossibile per l’università continuare a
erogare un servizio soddisfacente (ma soddisfacente per chi?). Quali
fossero i contenuti e i limiti della didattica offerta dalle
università non è stato mai oggetto di discussione;
inoltre questo tipo di discorso dà per scontato che
l’università, fino ad ora, funzionasse perfettamente e che
solo una banda di ignoranti che “inspiegabilmente” si sono
trovati a governare abbia interrotto il “circolo virtuoso del
sapere”.

Anche
una serie di occupazioni – o presunte tali – hanno fatto emergere gli
stessi limiti. Molte università italiane, dichiarate occupate,
hanno fatto la scelta di garantire la didattica e le attività
amministrative degli atenei. Una scelta di lotta soft in
perfetta continuità con l’idea di una amichevole alleanza e
comunanza di intenti tra manifestanti, docenti, istituzioni
universitarie. Solo in rarissimi casi si è arrivati a mettere
giustamente in discussione il ruolo dell’istituzione universitaria e
di chi lavora per mantenere questa istituzione al passo con le
logiche classiste di questa società.

In
questo contesto, in quanto ricercatori, dottorandi e assegnisti
precari delle università napoletane, abbiamo cercato di
inserirci e di portare avanti un ragionamento e delle rivendicazioni
che mantenessero un piano politico ben preciso, cercando di
denunciare apertamente la colpevole complicità di chi,
seguendo logiche di natura corporativa, si offre come mediatore tra
le istanze degli studenti e la casta baronale.

L’esperienza
dell’autorganizzazione

Il
nostro primo problema è stato, naturalmente, quello di cercare
un metodo comune di coordinamento. I ricercatori, i dottorandi, gli
assegnisti, e tutte le figure precarie che lavorano e mandano avanti
l’università – spesso gratuitamente o con remunerazioni del
tutto simboliche – sono spesso un soggetto frammentato: a ognuno di
noi insegnano e ricordano di essere sempre rispettosi e fedeli nei
confronti di un sistema che ci promette un “posto al sole” dopo
una lunga e distruttiva gara di resistenza, dove “uno su mille ce
la fa”. La necessità di rompere questo ruolo di complicità
con i professori e con un sistema di cooptazione ingiusto e classista
ci ha portati a creare una struttura autorganizzata che evitasse ogni
tipo di eterodirezione e ogni atteggiamento concertativo.

Il
blocco della didattica e, dove non avvenisse, il rifiuto da parte
nostra di fare lezioni, esami e lavoro di dipartimento, ci permesso
di essere coscienti della possibilità di una azione unitaria,
che di fatto ha interrotto il lavoro di certe cattedre che si
appoggiava proprio sulle nostre corvée, e di guadagnare
tempo da dedicare alla lotta, alla condivisione… insomma, alla
militanza.

Il
nostro intento era quello di marcare una presenza forte all’interno
della mobilitazione, cercando di comprendere e condividere le
contraddizioni dell’università insieme a quelle della società
in cui viviamo, lontani da una logica corporativa con la quale, al
contrario, spesso ci siamo scontrati.

A
mobilitazione conclusa, ci sembra opportuno porci il problema di come
continuare un lavoro che sia capace di incidere sulla realtà
che ci circonda, considerando da una parte i limiti e le
caratteristiche del movimento che ci lasciamo alle spalle, e
dall’altra la necessità di capitalizzare il lavoro portato
avanti fino ad ora e ciò che di positivo c’è stato in
un movimento che, con tutti i suoi limiti, ha almeno avuto il merito
di risvegliare menti e coscienze di tanti.

Che
fare(mo)

Il
nostro intento è quello di continuare il lavoro che abbiamo
intrapreso su due piani complementari. Da una parte, infatti, si
tratta di rompere la tendenza alla frammentazione; tutti noi,
infatti, siamo divisi tra una miriade di diverse forme contrattuali
precarie e di forme di volontariato completamente gratuite che ci
spingono a “fare parte per noi stessi”. Dall’altra, a smascherare
il ruolo ideologico che assume l’università nel processo di
riproduzione ideologica.

Ci
sembra utile cercare di comprendere e smascherare lo sfruttamento di
cui siamo vittime, ma ci pare altrettanto necessario considerare il
nostro luogo di lavoro come un luogo che non è affatto neutro.
A tal proposito due esempi ci sembrano particolarmente importanti: il
processo di riforma universitaria ha creato i presupposti per
l’adeguamento in termini di tempi di vita degli studenti e dei
ricercatori agli standard europei, ma allo stesso tempo il contenuto
di questa riforma e dei saperi che ci vengono somministrati è
volto a far passare come assolutamente positivo il messaggio di
“integrazione europea” anestetizzando ogni tipo di coscienza
critica. Un altro esempio altrettanto emblematico di come la ricerca
scientifica si risolva spesso in produzione di ideologia è
quello relativo alla recente aggressione israeliana nei confronti
della striscia di Gaza. È sconvolgente, infatti, come un
evento di tale portata, complice anche la spoliticizzazione del
movimento studentesco, sia completamente passato sotto silenzio senza
dar vita a nessun tipo di mobilitazione. Ed è vergognoso che
(con rarissime eccezioni) gli attori principali del mondo della
ricerca abbiano continuato, in modo attivo o col loro silenzio, a
contribuire al processo di falsificazione e di omissione che
legittima la politica criminale dello stato d’Israele. Come se le
stragi di quei giorni, o anche l’apartheid praticata
sistematicamente nei confronti della popolazione palestinese, non
tocchino l’essenza di quei saperi che pure si pretende di
trasmettere.

Ci
sembra fondamentale portare all’interno dell’università – che
è il nostro luogo di lavoro – elementi di coscienza critica
che possano contribuire a smascherarne e dunque scardinarne il ruolo
funzionale alle logiche classiste della società in cui
viviamo.

Rete
dottorandi e ricercatori delle università di Napoli

rete.univ.napoli@gmail.com

http://rete-dottorandi-ricercatori.noblogs.org

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