per l’unità delle lotte!

come si diceva qualche giorno fa, tornati da roma, ci siamo rituffati in piena mobilitazione, sperando che dopo l’onda non ci fosse il riflusso, e quindi di non restare impantanati nella secca melmosa (ok ok la smettiamo, questa maledetta storia dell’"onda" ha portato tutti a diffondere metafore da quattro soldi)…
siamo quindi tornati a occupare, presidiare, iniziativizzare i nostri vari atenei, a continuare a stringere rapporti e sostenere attivamente le battaglie di altri soggetti (come i precari dell’insegnamento, a noi molto vicini) e allo stesso tempo ci siamo messi a studiare… roba ce n’era: da un lato le nuove linee guida sull’università, dall’altro i report usciti dall’Assemblea nazionale della Sapienza. be’, dopo esserci confrontati prima ai workshop romani, poi in tre riunioni nostre, abbiamo pensato di scrivere un bel documentino di analisi politica.
trattasi di tre paginette che tentano di dare, dall’interno della mobilitazione e in base alla nostra piccola esperienza di militanza, un nostro contributo al movimento. questo è solo l’inizio di un dibattito più ampio, che riguarderà le rivendicazioni specifiche fatte nei report e nelle altre piattaforme dei precari a livello italiano, e le forme organizzative che decideremo di assumere per far bloccare e far ritirare i provvedimenti infami del governo. su questo in futuro, lo possiamo assicurare, ne sentirete delle belle..
per adesso proviamo un po’ a dare una cornice di analisi, di ampio e di piccolo respiro (crisi-riforme delle università, precarizzazione, sistema dei crediti etc). e cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su quella parola d’ordine di "autoriforma" che ci sembra essere davvero limitante della conflittualità che possiamo e dobbiamo esprimere insieme agli altri soggetti colpiti dalla crisi… buona lettura, e fateci sapere che ne pensate! la nostra mail è sempre questa: 
rete.univ.napoli@gmail.com
 

PER L’UNITÀ DELLE LOTTE


Contributo della Rete dei dottorandi e dei ricercatori delle Università di Napoli




Siamo ormai a due mesi di mobilitazione contro i provvedimenti su Scuola e Università del governo. Un grande movimento di genitori e insegnanti, di studenti e dottorandi, di precari e lavoratori ha saputo bloccare il corso normale delle cose, alterare i programmi stabiliti, risvegliare le coscienze, riempire luoghi pubblici di significati altri, mettendo in discussione 15 anni di “riforme”. “Riforme” che – nel quadro di un generale smantellamento del sistema pubblico, di una ristrutturazione capitalista su scala internazionale, di una grande offensiva materiale e ideologica contro i diritti sociali – stanno facendo a pezzi il nostro sistema di istruzione e ricerca. I 200.000 che il 14 novembre hanno invaso le strade di Roma hanno dimostrato che la stragrande maggioranza di chi vive e lavora nelle Scuole e nelle Università vuole il ritiro dei provvedimenti già approvati e il blocco di quelli a venire. Questo è infatti il primo, necessario e improcrastinabile obbiettivo del movimento, e a questo deve essere subordinata ogni nostra iniziativa politica. Per raggiungerlo, però, l’entusiasmo e la tenacia non bastano: bisogna dotarsi di strumenti necessari a rafforzare la lotta.


Questo documento rappresenta il frutto di un primo momento di confronto collettivo e un piccolo tentativo di allargare il dibattito. Solo portando a fondo la nostra critica e mostrando le connessioni fra le misure sull’Istruzione e questo sistema economico e sociale, possiamo far assumere alla mobilitazione una dimensione più grande e radicale. Questo è un punto della massima importanza: di fronte al crescente controllo dei media, all’apoliticismo indotto, alla repressione continua e strisciante nei luoghi di lavoro e nelle piazze, un’eventuale sconfitta del movimento comporterebbe infatti un’ulteriore e inaccettabile restrizione degli spazi di agibilità politica e di contestazione.


È questo, d’altronde, ciò che il governo ha perseguito sin dall’inizio, approfittando del periodo estivo per blindare la programmazione economica dei prossimi tre anni, approvando un pacchetto di provvedimenti su larga scala (legge 133), dispiegando su tutti i media la campagna del consenso, inventando sondaggi a suo uso e consumo. Ciononostante è esploso il dissenso, proprio sul punto cardine della Scuola e dell’Università. Il governo ha tentato allora di stroncare il movimento, prima minacciando l’uso della forza, poi lasciando infiltrare e “coprendo” elementi dell’estrema destra, e ancora proseguendo una massiccia campagna di disinformazione. In ultimo, per impedire il collegamento tra le proteste degli studenti e quelle dei lavoratori sui quali peserà questa crisi, ha simulato aperture e ha tentato di cooptare le finte opposizioni istituzionali, intavolando la trattativa su qualche milione di euro di tagli o su altri aspetti marginali, utilizzando il paravento ideologico dell’“emergenza”, dello “spreco” e addirittura della “lotta al baronato”! Insomma, nonostante la crescita del movimento, la quale rappresenta già di per sé una prima vittoria, le misure volute da Tremonti, Brunetta e Gelmini – certo rallentate, ostacolate, costrette a piccole revisioni – avanzano! Ed è proprio attraverso queste tattiche, cercando di far introiettare le proprie priorità e linee di intervento (“bisogna riformare”!), che il governo prova a sfiancare il movimento, e, soprattutto, a dividerlo fra le sue varie componenti, sia politiche che categoriali (con una serie di provvedimenti, tipo quello del 6 novembre, con cui si oppongono gli atenei fra loro, i precari della ricerca al personale tecnico-amministrativo, gli studenti ai dottorandi etc).


Rispetto a queste manovre del governo – che hanno certo parecchie crepe, ma non vanno sottovalutate – ci saremmo aspettati che l’Assemblea nazionale tenutasi alla Sapienza il 15 e il 16 novembre fosse un momento di elaborazione di prospettive incisive per proseguire e tenere alto il livello della mobilitazione. E invece, oltre al coraggio e la determinazione di molti compagni, che ha dimostrato come il movimento sia quanto mai vivo, carico di idee e sperimentazioni, abbiamo visto un po’ di confusione e sentito molte chiacchiere a proposito dell’“autoriforma”. Questo concetto era già presente nell’appello dell’Assemblea, che, alla faccia della molteplicità e del dibattito, consegnava ai partecipanti una cornice ristretta: parliamo di come riformare la nostra Università, attraverso una didattica partecipata, un nuovo welfare state e un pacchetto di ammortizzatori sociali per i precari… Nessuna analisi della fase, nessun cenno teorico al ruolo del sistema formativo all’interno delle società a capitalismo avanzato, nessun tentativo di sviluppare i germi di una nuova soggettività politica presenti nel movimento.


Nonostante poi nei dibattiti dei workshop si siano confrontati molteplici orientamenti, ci sono stati consegnati dei report che battevano insistentemente sulla parola d’ordine dell’autoriforma, che poi nessuno ha ben capito cosa sia. Che vuol dire “autoriforma”? Riformarsi da sé? È un progetto di un’Università all’interno dell’Università? Ma è possibile costruire nelle aule qualcosa di davvero alternativo oppure il peso di certe dinamiche economiche e direttive politiche è talmente forte che o lo affrontiamo in toto o ne finiremo comunque sconfitti? In realtà, dietro alla vacuità del concetto ci sono gli obbiettivi politici di una componente del movimento, che presenta con un linguaggio immaginifico delle posizioni tutto sommato moderate, che ricalcano le letture riformiste istituzionali, infarcite di un po’ di studentismo e di corporativismo (si parla a cuor leggero del Trattato di Lisbona e della Carta Europea della Ricerca, senza dire nemmeno a quali esigenze siano funzionali!).


Purtroppo questa è l’unica cosa che si può capire alla fine della lettura: o non si parla di nulla o si tenta di veicolare l’autoformazione, una modalità alquanto originale di critica del sistema universitario. Si tratta, ad esempio, di proporre alle autorità accademiche il riconoscimento in crediti formativi di controcorsi “alternativi” alla didattica ordinaria. In questo modo si “inflazionerebbero” i crediti e ci si impadronirebbe della didattica dal “basso”. Secondo noi una proposta del genere segna l’arretramento oggettivo delle lotte: un po’ di buon senso basta per capire che con questa richiesta non si combatte, ma si collabora e si legittima il sistema dei crediti, strettamente connesso e funzionale al mondo del lavoro precario (e alla dequalificazione del titolo: si pensi alle vergognose convenzioni che gli atenei stipulano con corporazioni di ogni tipo solo per fare cassa!).


L’adozione del sistema dei crediti non è solo un’operazione linguistica – espressione di una visione quantitativa, “bancaria” e gerarchica della formazione – ma si inserisce nella costruzione di un sistema di certificazione delle competenze, integrato a livello europeo. Si vuole creare un sistema di formazione esteso e continuo, adattabile alle bizze del mercato, che i lavoratori (di oggi o di domani) finanzino di tasca propria, passando dallo sfruttamento nei luoghi di lavoro a quello del mercato dell’insegnamento, e viceversa. Chi governa fuori e dentro le università ha fatto almeno 15 anni di riforme per assicurarsi che la didattica sia ordinata in un certo modo, parcellizzato, ossessivo, meccanico; ha reso tutti ricattabili, ha frammentato i contratti, ha separato la ricerca dalla didattica, scaricando su dottorandi e ricercatori mansioni tecniche e amministrative… Non si fa certo turbare da un controcorso! Così non si rompe il nesso fra precarietà e formazione, la si incatena ancora di più a una valutazione quantitativa, in cui ogni disciplina serve solo a riempire tempo astratto. Insomma, non ci si riappropria di un bel niente: semmai si rischia di dare al sistema dei crediti quella credibilità che gli manca.


Questi sbandamenti nella pratica derivano da una mancanza di analisi o da un’analisi molto superficiale. Chi si accontenta dell’autoriforma (al di là degli enormi limiti che pure tali proposte mostrano di avere sul piano dell’attuazione concreta), non capisce la relazione che sussiste fra istruzione, ricerca e mondo del lavoro. Invece di mettere in discussione i processi di privatizzazione e precarizzazione unendosi a quelle forze sociali che hanno tutto l’interesse ad opporvisi, ci si mette ad immaginare aleatorie vie di fuga. Si parla di “centralità del capitale cognitivo” senza vedere che la ristrutturazione della Scuola e dell’Università è esito e parte integrante di un attacco rivolto innanzitutto contro i lavoratori cosiddetti “manuali”. Non si dà rilievo alle condizioni di lavoro del personale tecnico-amministrativo, in costante carenza di organico e obbligato a straordinari non retribuiti, o alle esternalizzazioni di servizi come le mense, su cui il pubblico non ha più controllo.


Bisognerebbe piuttosto leggere in questo smantellamento del pubblico un modo per occupare posti chiave e riprodurre la configurazione di classe della società (dai poli di eccellenza esce un élite ben indottrinata, nelle restanti università-licei si sfornano obbedienti lavoratori a basso costo e futuri tributari di master, stage e scuole di specializzazione…). Tutti i provvedimenti che hanno ridefinito i percorsi formativi hanno come matrice il tentativo di contribuire al rilancio dei profitti, da un lato attraverso la ricerca continua di innovazioni tecnologiche, dall’altro attraverso la formazione di una forza-lavoro adeguatamente dequalificata, disperata e in competizione, dotata di quel bagaglio minimo di conoscenze (internet e inglese, ad esempio) che permetta di svolgere le nuove mansioni del salariato. Anche questa (oltre all’attacco diretto alle condizioni lavorative, alla finanziarizzazione, allo sfruttamento del Sud del mondo, all’escalation militare) è stata una strada che l’economia ha percorso per far fronte alla crisi di accumulazione verificatasi dall’inizio degli anni ’70. Assumere tale impostazione (con la conseguente impossibilità di redistribuire ricchezza attraverso lo Stato sociale, e la correlata risposta di mercificazione degli spazi pubblici), ci consente di strutturare meglio la nostra azione politica. L’idea del governo infatti è chiara: finanziare maxi-piani di salvataggio alla banche con tagli, licenziamenti, casse integrazioni, riducendo la sicurezza a scuola e sul lavoro (inagibilità degli edifici, morti bianche…), distruggendo forme di autodifesa collettiva come il contratto nazionale e generando, attraverso il federalismo e la repressione, razzismo e criminalizzazione dei movimenti sociali.


L’Università che vogliamo deve muovere dalla comprensione e dal rifiuto radicale di queste politiche, deve cominciare diventando un luogo di transito per le lotte aperte nella società. Come studenti, precari, lavoratori non abbiamo davvero bisogno di “essere riformati” o di “autoriformarci”! Non dobbiamo ricavarci spazi di agibilità in un sistema in crisi, magari recuperando i tagli alla formazione dalle pensioni o dalla sanità. Se siamo un movimento di lotta, e non una costola di qualche partito politico con responsabilità di governo, non dobbiamo fare riforme, non dobbiamo sostituirci al legislatore o collaborare con chi è artefice di questo disastro, magari rafforzandolo proprio lì dove il suo disegno era debole. Non ci dobbiamo proporre di amministrare diversamente l’università, né di rivendicare un’autonomia della cultura (quale potrebbe essere in questo sistema?): entrambe le cose non sono fatte per noi, ma per il profitto di pochi, e potranno cambiare solo se tutta la società riesce a muoversi in un’altra direzione.


Questa deve essere ora la nostra priorità, perché il movimento non ha alternative per sopravvivere se non quella di far sì che la grande partecipazione di massa di queste settimane sia la base di un’opposizione sociale più ampia e consapevole che, sbilanciando i rapporti di forza, faccia ritirare queste riforme, e intimorisca il governo dal procedere su altri fronti. Alcune vittorie di questi anni (sull’articolo 18, sul CPE…) e alcune sconfitte dovute alle trattative al ribasso condotte da sindacati confederali, da associazioni studentesche e docenti, da dottorandi e precari, ci dovrebbero aver insegnato che non c’è possibilità di salvezza individuale: per questo bisogna lottare uniti, iniziare percorsi comuni di confronto, proprio a partire dalle sciopero generale del 12 dicembre. Organizziamoci e coordiniamoci con gli altri soggetti colpiti dalla crisi, e con chi da anni difende i propri territori e resiste alle devastazioni ambientali; opponiamoci in maniera netta e inequivocabile al governo e ai suoi lacchè negli atenei; diffondiamo ovunque queste analisi e questa consapevolezza: solo così riusciremo a imporre ciò che vogliamo, fuori e dentro le scuole e le università!


contro i tagli ai fondi a scuola e università

contro il blocco del turn-over

contro la trasformazione delle università in fondazioni

contro il 3+2, l’autonomia e il sistema dei crediti

contro le logiche baronali e cooptative


per una vera democratizzazione nell’accesso all’istruzione

per il finanziamento della ricerca pubblica e di base

per l’abolizione di tutti i contratti atipici

per una ricerca e una didattica come veri momenti di socializzazione e pluridisciplinarietà

per un’università pubblica e di qualità!




Rete dottorandi e ricercatori delle università di Napoli


rete.univ.napoli@gmail.com

http://rete-dottorandi-ricercatori.noblogs.org

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